4.6.06

D'in su la vetta della torre antica..

Stride. Come una forchetta graffiata su un piatto, visto che siamo in vena di citazioni. A volte, quando cerco di non pensarci, rimane come un rumore dimenticato di sottofondo. A volte invece, mi basta posarci il pensiero per un attimo per rimanere lacerato. O come stasera, ripetendo la situazione, riattivare tutto l'apparato in grande stile.
Ma perché. Perché?
Perché cosa? cosa voglio chiedermi? dunque organizziamoci.
Forma bruta: io sono in generale inadeguato.
Che vuol dire?
io in mezzo alla gente non ci so stare. è quello che cerco di migliorare di me, ma oltre una soglia minima non riesco ad andare. Ora, questa soglia minima bisognerebbe quantificarla oggettivamente. Perché potrebbe non essere affatto minima, e mi preoccupo eccessivamente di espanderla ancora, oltre la zona in cui dovrebbe essere compito degli altri venirmi incontro. Oppure potrebbe essere davvero minima, e quindi devo allenarmi ancora, se proprio voglio raggiungere dei risultati.
Ma è veramente questa la mia vera natura?
Questa voglia di sociale (relativamente nuova e sconosciuta per me, tra l'altro) è giustificata, posso permettermela, la desidero veramente? O è un nuovo sistema inconscio per autoaffossarmi?
E soprattutto perché sento di aver finito le parole in quanto ci ha già pensato qualcun'altro ad esprimere questo stesso identico concetto?

Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli
Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.
[...]
Questo giorno ch'omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell'aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all'altrui core,
E lor fia vóto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirornmi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.


Ho questo pregio, io. Ma così esasperato da risultare solo come un pericoloso difetto. Riesco a rimettermi in discussione di continuo, fin dal profondo.

Risultato? solo un mucchio di merda smossa.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Visto che siamo in vena...


"Quis sicut Dominus Deus noster, qui in altis habitat,
et humilia respicit in caelo et in terra?

Suscitans a terra inopem,
et de stercore (ohhh il latino!!) erigens pauperem:

Ut collocet eum cum principibus,
cum principibus populi sui.

Leo ha detto...

per i periti tecnici non latinofoni? :P

Anonimo ha detto...

Chi è pari al Signore nostro Dio, che abita in alto,
e guarda le cose piccine che stanno in cielo e sulla terra?

Risolleva da terra quelli senza risorse
e rimette in piedi dalla merda il poveraccio
per metterlo tra i primi
tra i capi del suo popolo...


che figo sto tizio!!

 
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